mercoledì 26 marzo 2008

Zia Lucy



La domenica di Pasqua sono andato a trovare mia zia Lucy, che abita da 57 anni a Staten Island (NY). Ma chi è zia Lucy?
Conversazione con mia madre circa due settimane fa: "Ma', ma lo sai che a Staten Island ci sono tutt'ora il 40% di italiani?" -"Ma guarda... gli Stati Uniti sono proprio un grande paese, checché se ne dica soprattutto negli ultimi tempi... a proposito ma lì ci dovrebbe essere anche una mia CUGINA!" - "Ma', ma sei ubriaca? Cosa stai dicendo? Non mi hai mai parlato di lei e sono più di tre mesi che sono qui?" -"Si, hai ragione, me ne sono dimenticata... Madonna, da quanto tempo non la vedo... me la ricordo che giocavamo insieme e avevano tutte e due le trecce..." -"Ma', ma sei sicura? Era prima o dopo la seconda guerra mondiale?" -"Prima, prima: poi mi ricordo che suo padre, mio zio, decise di andare in America e si portò anche sua sorella mi pare". -"Veramente? Che storia incredibile..." - "Ma perché non le telefoni? Aspetta, aspetta che mo' chiedo il suo numero di telefono a Rosa Cugina (sua sorella NDR) che sta ancora a Barile, in provincia di Potenza". -"Ma', ma che dici? Io non l'ho mai vista e tu sono almeno sessant'anni che non la vedi! Che figura ci faccio?. "Seeh, figurati! Ora telefono a Rosa. Ciao".
Detto, fatto. Ho il numero per telefonare a zia Lucetta che devo cercare perlomeno tre volte prima di trovarla, a conferma della sua straordinaria mobilità, considerata la sua età e la condizione del suo ginocchio destro. "Vincenzo, che piacere! Il figlio di Lina (Adele, mia madre, NDR)! Che sorpresa! Perché non vieni a passare la Pasqua da noi? Puoi stare una, due notti, quanto ti pare... Allora, devi arrivare al White Hall Terminal e prendere il Ferry..."
Sono sbarcato a Staten Island all'una, dopo esser riuscito a perdere un subway e un traghetto. In compenso la traversata che parte da Lower Manhattan è stata meravigliosa: lo Staten Island Ferry da solo vale il viaggio (la traversata è gratuita), in quanto offre una delle viste più belle di Manhattan, di Ellis Island e della Statue of Liberty. Infatti è sempre pieno, oltre che di pendolari e abitanti, di turisti che lo prendono andata e ritorno tanto per fare le foto. Il cielo terso, i gabbiani... peccato che non ci siano più le Twin Towers, perché da qui l'assenza si nota.
Sbarco e mi aggiro come un idiota per la banchina semideserta la domenica di Pasqua. Tengo un mazzo di fiori in mano, non bellissimo per la verità, ma è tutto quello che sono riuscito a trovare per non presentarmi a mani vuote. La prossima volta farò di meglio. Stavo quasi per disperare e cercare una cabina telefonica, quando una Hundai color vinaccia mi inchioda davanti: "Vincenzo!" -"Zia Lucetta!" -"You can call me Lucy...".
Sembrava che io e zia Lucy non ci vedessimo da qualche anno, invece non ci eravamo mai conosciuti. Non so: il sangue, il fatto che in fondo da nubile portava lo stesso cognome di mia madre, il fatto che forse in quella giornata pur di non stare solo mi sarei fatto adottare da chiunque, sta di fatto che tutto mi è sembrato bellissimo, immerso in una atmosfera da favola, come in quell'episodio della New York Trilogy di Paul Auster (ancora lui) in cui il protagonista, recitato in film da Harvey Keitel, finisce per trascorrere il Natale con una meravigliosa nonna nera cui voleva solo restituire il portafoglio.
Anche la casetta di zia Lucy in Dogwood Drive è una casetta delle favole: uova pasquali verdi, rosa e gialle sono appese ai vetri delle finestre e si sale al piano di sopra attraverso una scaletta ripida e stretta su cui si affacciano tanti coniglietti.
Verso le due e trenta si sono cominciati a presentare gli invitati, in perfetto orario secondo l'usanza americana dei pranzi festivi. Si sono presentati nell'ordine: due amiche di zia Lucy (una magrissima e una enorme da non capire come possa esser venuta su dalle scale), sua figlia (mia cugina) Roxanne con il marito e i tre figli, più tardi il figlio (mio cugino) Joseph con la moglie.
Zia aveva fatto il pane in casa e cucinato tanta di quella roba che - pur avendone portato via una quantità assolutamente insignificante – ci sto ancora mangiando a pranzo e a cena.
Il momento più bello della intensa e insolita giornata è stato sicuramente quello in cui zia Lucy mi ha fatto vedere la targa che il Wagner College, presso cui lavora, le ha donato per quasi venti anni di onorato servizio alla mensa e alla cafeteria. Sulla targa dorata gli studenti, che in occasione della festa iniziale dell'anno accademico la hanno portata in trionfo e le hanno fatto riservare il posto nel palco d'onore, hanno fatto incidere le seguenti parole di Mark Twain:
"If we should deal out justice only, in this world, who would escape? No, it is better to be generous, and in the end more profitable, for it gains gratitude for us, and love".
Lei lo ha letto, ci siamo abbracciati e abbiamo pianto.
Zia Lucy arrivava a Brooklyn cinquantasette anni fa, da Barile, provincia di Potenza.

venerdì 21 marzo 2008

Good Friday


È il Good Friday, giorno di per sé non particolarmente allegro (di digiuno e penitenza nella tradizione cristiana: "good" nel senso di "virtuoso"). Fuori nel campus l'unica cosa che si muove sono gli scoiattoli a spasso tra gli alberi, che fanno rumore scricchiollando sulle foglie secche. Decido di fare una passeggiata, sfidando l'ostinata convinzione dei locali, secondo la quale è necessaria la macchina per fare più di trecento metri. Non è che mi aspetti molto da quest'escursione, ma la giornata è soleggiata, il cielo è terso e l'aria frizzantina. Vado giù per la discesa che si incontra dall'uscita 4 del campus, costeggiando la strada lungo un marciapiede appena accennato. Intorno, foreste di alberi – sembrano liquidambar, anche se accetto suggerimenti – ancora spogli. Sulla strada le automobili sfrecciano emanando ancora più gas in prossimità della salita, ma l'aria nonostante tutto è buona, grazie alle foreste e al venticello fresco.
Dopo circa una mezz'oretta di cammino arrivo nel centro abitato, che in realtà più che un centro è una periferia: quella della città di Paterson. Ex "silk city" nell'ottocento, è stata uno dei nuclei industriali più importanti della costa est. Qui si producevano anche i primi prototipi dei sommergibili Holland, le locomotive Roger e le celebri pistole di Samuel Colt. La comunità italiana fu particolarmente numerosa e verso i primi del novecento arrivò a contare circa 20000 persone, tra cui gli anarchici Errico Malatesta e Gaetano Bresci, la mano che uccise a Monza il Re Umberto I di Savoia. Il nome della città fu dato in onore a William Paterson, primo governatore del New Jersey e firmatario della costituzione americana del 1787 – uomo politico cui è intitolata anche l'Università presso cui lavoro. Oggi la città è degradata in maniera impressionante, esempio della velocità con cui mutano i paesaggi urbani statunitensi: le classi medio-alte hanno rapidamente traslocato nei sobborghi limitrofi verso New York, lasciando il centro agli ispanici più poveri (il 51% della popolazione). Tutti quelli che ho conosciuto si sono ben raccomandati di non andare in centro la sera – raccomandazione che suona ben strana alle nostre orecchie europee, abituati come siamo a collocare il disagio sociale nelle periferie.
Non faccio nemmeno in tempo ad orientarmi fra le modeste case in stile vittoriano che segnano l'inizio della città, che la mia attenzione è colpita bruscamente da un nome, da un'immagine. Accanto ad un centro commerciale, una insegna cattura il mio sguardo più delle altre e sono preso dall'impulso irrefrenabile di fotografarla. Certo, voi penserete, il nome del poeta patrio per eccellenza non può che suonare dolce alle orecchie di colui che si trova a miglia e miglia lontano da casa. Ma dentro di me sento che non è (solo) per questo che provo il desiderio di riportarvi questa immagine. Altro è legato a questo nome e a questo suono. Ve lo sottopongo affinché possiate giudicare voi stessi.
Buona Pasqua.

lunedì 17 marzo 2008

sabato 8 marzo 2008

Nick Stellino's Family Kitchen


La trovata assolutamente geniale di Paolo sulla pillola di Matrix, mi offre il destro per offrirvi un altro post con una serie di argomenti che stavo meditando da un certo tempo. In continuità con le mie riflessioni italoamericane, che hanno avuto un discreto successo di pubblico (tre persone le dovrebbero aver lette). Del resto è sabato, sono solo in casa e fuori c'è una tempesta – nel senso tecnico del termine: che altro potrei fare? Se mi erano venute a trovare le bimbe del blog, qualche idea l'avrei potuta proporre, ma così...
Bene, cominciamo. Vi avverto subito però che questa volta la riflessione sarà un po' più complessa. Del resto, nessuno è obbligato a leggere e soprattutto nessuno è obbligato a leggere tutto, come dice pure Pennac nella "tavola dei diritti del lettore".
Intorno all'ora di pranzo, non è difficile accendere la televisione e imbattersi in trasmissioni culinarie, in Italia come credo nel resto del mondo dotato di televisione. La differenza tra l'Italia e gli Stati Uniti, voi penserete, è solo nella tipologia di cucine e nelle ricette che vengono offerte. Sbagliato. In realtà la maggioranza dei programmi di cucina che si vedono sulle maggiori emittenti della costa est - o perlomeno quelli che mi sembrano i migliori e i più seguiti – sono italoamericani. Due di questi in particolare hanno colpito la mia immaginazione (oltre al mio palato): Lidia's Italy e, soprattutto, il mitico Nick Stellino. Ora, la caratteristica di questo simpatico personaggio, bravo sia come cuoco che come attore, è quella di mettere in scena le sue prelibate ricette in maniera in maniera affatto teatrale. Il personaggio che mette abilmente sulla scena impersona in maniera mirabile il pacioccone, il piacione, che gesticola e parla con le mani anche quando non sarebbe necessario, e, quando la pietanza è finalmente pronta e fumante, la gusta e la annusa con grande libidine, congedandosi dagli spettatori con un rumoroso arrivederci spalancato a quattro mani. Potete farvi un'idea anche voi direttamente (www.nickstellino.com). Stellino si dà da fare per offrirci quello che potremmo chiamare un tradizionale "stereotipo" di italiano.
Un po' meno teatrale è Lidia– "America's most favourite chef". In compenso è la protagonista di una trasmissione più complessa, non esclusivamente di ricette (www.lidiasitaly.com). Lidia non recita ma alterna le sue meravigliose ricette con immagini struggenti dell'Italia da cartolina (la sicilia, la costiera amalifitana, la maremma toscana, la trattoria di trastevere con i tavoli fuori e il chitarrista), accompagnate da adeguate sfondo musicale mandolineggiante, immagini di tavolate familiari contadine. Anche lei ci offre uno stereotipo – sia pure di qualità, va detto – dell'Italia.
Ora, consentitemi una breve digressione. Che cos'è uno stereotipo?
Esso si fonda su di una funzione non necessariamente negativa, quanto piuttosto inevitabile della nostra percezione: la "tipizzazione". Noi pensiamo, vediamo e conosciamo per mezzo di "tipi": è una funzione fondamentale della conoscenza, che si basa sulla percezione di dati essenziali e sulla loro generalizzazione ad una categoria generale di fenomeni. Il problema dello "stereotipo" che cade nel pregiudizio e nel razzismo nasce piuttosto dall'irrigidimento di questa facoltà generalizzante. "Stereos" in greco infatti significa "duro", "rigido". Quello che c'è di deteriore nello stereotipo è dunque la sua fissazione eccessiva, ovvero il suo non rimettersi in discussione di fronte ad esperienze che lo dovrebbero fare evolvere e mutare.

L'Italia vista attraverso le lenti di Lidia e Nick dunque non è assolutamente falsa: è solo un bozzetto, un acquarello di scarsa qualità, che tuttavia ritrae un soggetto e dei caratteri esistenti. E tuttavia, di fronte a questo stereotipo, riesce difficile liberarsi dalla sottile ma pervicace sensazione che, in fondo in fondo, colga l'essenziale. Quello che l'Italia ha da dire – ancora oggi, nell'epoca globale – al resto del mondo.
L'ultimo rapporto del Censis ha infatto descritto la società italiana come una "mucillagine sociale", una società decomposta, rarefatta, fatta anche di isole di eccellenza (industriale, produttiva, educativa), che tuttavia non riescono a collegarsi, a fare sistema, a creare un paese degno di questo nome. Una prospettiva ben diversa di quella dei nostri amici italoamericani ci offre tuttavia un quadro analogo, fatto di improvvisazione e approssimazione: si tratta ancora una volta di un "bozzetto".
Non so se chi ha parlato del destino dell'italia come quello di "uno splendido cadavere calpestato da milioni di turisti" abbia effettivamente offerto solo una macabra esagerazione. A me sembra se non proprio un destino, qualcosa che ci sta drammaticamente e quotidianamente vicino.
Una scrittrice inglese ha detto che i problemi dell'Italia si possono riassumere in tre sue caratteristiche principali, che non sono di per sè singolarmente negative, al contrario sono la ragione stessa della sua fortuna del mondo: "troppo sole, troppa storia, troppa politica". Troppo sole: il sole è bello – a chi lo dite -, ma purtroppo impigrisce, rende statici e disponibili ad eccettare le cose come stanno, perché ci sembrano le migliori possibili. Troppa storia: l'Italia è una terra di rovine, meravigliose e ammiratissime. Le rovine sono la sopravvivenza del passato nel presente, la sua permanenza inesorabile. Possono contenere un monito liberatorio (l'utopia del passato che interroga ancora il presente) ma uno altrettanto depressivo: rappresentano la vanità di ogni sforzo umano, testimoniando che tutto muore, tutto è caduco, destino immutato nonostante i nostri sforzi e le nostre azioni.
Troppa politica, infine. Non politica in senso alto, come elaborazione progettuale del destino collettivo, ma la politica delle "piccole patrie" ": rivalità tra regioni, città, comuni, quartieri, rioni, condomini, pianerottoli, famiglie. "Un italiano, un partito politico; due italiani, due partiti politici; tre italiani, tre partiti politici", recita ancora un altro celebre stereotipo.

Che dire a conclusione di tutto questo? Che dobbiamo rassegnarci a coincidere con ogni forma di stereotipo e generalizzazione, dalla più raffinata alla più rozza e banale, in obbedienza ad un'altra arte autenticamente e scafatamente italiana? Naturalmente no. Come individui e come italiani siamo creature storiche e la storia, come ci è stato insegnato, si può cambiare, anche se non si può prescindere dalle condizioni in cui ci si trova ad operare. Occorre tenerlo ben presente, soprattutto adesso, in periodo elettorale. "La storia siamo noi", come dice De Gregori: non solo una volta tanto, ma ogni giorno, nel difficile compito di incrociare storia e quotidianità.

Pillola rossa o pillola azzurra?

Mele-sondaggio: visti i tempi che corrono, impossibile non mettere la scena di Matrix dove Neo sceglie di vedere la nuda e cruda realtà e rinuncia per sempre al mondo finto appunto di Matrix.

E voi, cari compagnucci di classe, che pillola mangiate?

giovedì 6 marzo 2008

GRAZIE ROMA ( non è un post impegnato, è solo un sentimento )


Mi scuso in anticipo per non introdurre argomenti socio-filosofici-culturali abbassando irrimediabilmente il livello del blog, ma mi sembra doveroso dedicare una prima pagina all'impresa compiuta dalla Maggica ieri sera a Madrid, impresa che bene o male ci fa sentire tutti ( forse anche qualche laziale ) meglio nei confronti del mondo e ci risveglia moti nazionalistici prepotenti, spesso sopiti.
Spero che Cristiano soppravviva a questa ondata calda di colori giallorossi e prometto che non inserirò le canzoni di Antonello nella compilation, anche perchè non posso collocarle in nessun periodo della mia vita in quanto mi accompagnano ininterrottamente da sempre nel cuore.
Un caldo abbraccio giallorosso. Massi.

lunedì 3 marzo 2008

Short Cuts

Cari, care,

mi dispiace interrompere le vostre incursioni con il passato, ma sento l'esigenza di richiamarvi al presente, o meglio al prossimo 13 e 14 aprile. Dopo diversi sondaggi che hanno furoreggiato sul nostro blog - per alcune ora ancora abbiamo la possibilità di esprimerci su chi di noi si sente più riccio, panda o licantropo sessualmente – non ho potuto resistere nel proporvi "IL" sondaggio, ovvero quello che in questo momento raffinati professionisti dell'ovvio stanno somministrando ad ogni vecchietta che trovano all'uscita del supermercato. Come potrete notare, esso ci accompagnerà fino al 12 aprile a mezzanotte, dando la possibilità di cambiare anche voto fino all'ultimo, per creare un po' di suspance. Vi prego di prenderlo doppiamente sul serio, sia perché così ci divertiamo di più a vedere se siamo un campione statisticamente significativo rispetto a quello che succederà a più larga scala nel paese, sia in considerazione del fatto che per me, povero emigrante senza rimborso spese, sarà l'unica possibilità di esprimere il mio voto.
Ma non è solo questo che volevo comunicare. Da qualche giorno mi frulla nel cervello un giochino che vorrei sottoporvi, sulla scia di quello proposto dal Marva, ma un po' diverso. Mi è venuto in mente quando in risposta alla sindrome da invecchiamento depressivo precoce del Cane, spontaneamente ho ricordato un episodio di "Caro Diario" di Nanni Moretti che esprimeva al meglio quel che sentivo al momento. Credo infatti che il cinema in generale e il cinema italiano in particolare sia ricchissimo di episodi come quello, che nel giro di pochi minuti riassumono in maniera esemplare stati d'animo, ci propongono battute fulminanti o personaggi irresistibili. Allora perché non riproporli sul nostro blog? Molti di essi si trovano già in rete, per la delizia degli appassionati. Chissà che non sia possibile, come Paolo si è riproposto di fare per il cd con le canzoni, anche un dvd contenente i nostri "short cuts" preferiti di Abatantuono, Thomas Milian, Sordi, Verdone, ma anche cinema americano o chi più ne ha più ne metta? Se poi qualcuno riesce a mettere in rete anche pezzi ancora più rari, ben venga e onore allo sforzo. L'importante è ovviamente che non siano troppo lunghi, ma tali da impreziosire e rendere godibile il blog, che si trasforma in una irresistibile cineteca personalizzata.
In fondo è il lavoro che Valeria sta facendo nell'ombra già da parecchio tempo con le sigle dei cartoni e molto altro materiale (onore alla Tizzanini per questo!).
Chi posta un episodio cinematografico, se vuole, ci può scrivere perlomeno una frase di commento... Alla fine, dopo che hanno postato tutti, possiamo anche farci un sondaggio sopra per decidere quello che ci è piaciuto di più
Monsieur-dame, fait vous jeu!
Già che ci sono, comincio io a dare il buon esempio, con un pezzo dell'immortale Troisi. Secondo me è talmente bello, che non ha bisogno nemmeno di commento: basta pensare a tutti i "robertini" che conosciamo!
Bona a tutti! Io vado a dormì, se no va a finire che vi svegliate prima voi.

domenica 2 marzo 2008

il primo giorno di scuola

Ciao a tutti, sono di nuovo a scrivere, ma dopo aver letto il post di Cristiano non posso fare altrimenti.
Leggendo l'incontro con il Matte mi è venuto in mente una cosa a cui non pensavo più da veramente tanto tempo: il primo giorno di scuola, nella mitica 1° D.
Siamo in 33, con una netta maggioranza maschile, cosa che continuerà per tutti i cinque anni avvenire (ma devo dire che non è stato un male, mi ha insegnanto un po' di cose, e non pensate male); io di questi 33 ne conoscevo 3, se non sbaglio (Paolo, Michele con cui ho fatto le medie e Pierpaolo, che pur essendo più piccolo di me mi chiama Ianina e con il quale ho fatto dalla Primina fino alla quinta e tutte le medie (eh si caro Ricci ci conosciamo da solo 32 anni una vita intera). Entrata in classe mi piazzo nel banco dietro a Paolo e Pierpaolo, il banco accanto a me era vuoto "Chissà chi si siederà li" e mentre penso a questa cosa sento una voce "C'è qualcuno accanto a te?" Alzo gli occhi e vedo una ragazzina, in salopette di Jeans e con le trecce (se non sbaglio) una faccia veramente simpatica. "no - rispondo io - il posto è libero". E' così che ho conosciuto Elena, la stessa che nel corso degli anni ho imparato ad apprezzare non solo per la sua simpatia, ma anche per le sue battute pungenti e la sua disponibilità.
PS: Pierpaolo mi sono ricordata bene le date? Spero di rivederti presto, magari in piazza S. Paolo, come è successo l'ultima volta.