sabato 30 agosto 2008
La Folla di Obama
Riporto questo articolo di Marco D'Eramo, noto giornalista e saggista del Manifesto, acuto conoscitore di cose americane, che fino ad ora si era sempre dissociato dall' "Obama-mania" di maniera e provinciale in salsa italiana. Anche lui è costretto ad ammettere "per chiunque abbia frequentato questo paese, è impossibile trattenere un groppo alla gola nel vedere una famiglia di afroamericani acclamata come lo furono Jackie e John Kennedy, Hillary e Bill Clinton". Buona lettura.
Se il mezzo è il messaggio, due saranno le tracce che la notte di giovedì lascerà impresse in milioni di americani. Un nero candidato ufficiale alla presidenza degli Stati uniti. E la folla sterminata che lo circondava. Nello stadio dei Broncos, a Denver, erano in 84.000 ad ascoltare il discorso con cui Barack Obama ha accettato la candidatura democratica. Parlare in uno stadio di calcio e non in un palazzetto dello sport da 20.000 posti era una scommessa rischiosa, sia per la difficoltà di riempirlo, sia per il pericolo di dirottare e snaturare in puro spettacolo un evento politico. Ma Obama ha vinto la duplice scommessa e, più che il suo discorso, è stata la folla che lo attorniava a costituire la sua vera prova di forza. Tra i precedenti candidati democratici, solo John Kennedy aveva osato pronunciare il suo discorso di accettazione in uno stadio, il Memorial Coliseum di Los Angeles nel 1960. Ma nemmeno Kennedy era riuscito a radunare una folla così oceanica.
Nella tecnologia politica statunitense Barack Obama ha introdotto infatti un'innovazione inedita, ha fatto della folla un fattore di politica istituzionale. In Europa siamo consci da tempo del ruolo che possono avere le folle oceaniche per gli aspiranti premier, per i leader, per i capi di stato, per i pontefici. Ma negli Stati uniti, fino a ora il ruolo politico della folla era confinato alle proteste, alle marce per i diritti civili, ai grandi cortei contro la guerra in Vietnam o in Iraq, alla One Million Man March del reverendo Louis Farrakhan.
Mai prima una folla di queste dimensioni era stata assemblata attorno a un senatore, a un candidato presidenziale.
Questa novità non ha ancora ricevuto sufficiente riflessione. È un evento inedito che gli analisti non sanno come catalogare: in fondo le uniche folle «istituzionali» che questo paese conosce sono quelle dello sport e dello spettacolo. Da qui l'accusa a Obama di giocare solo alla «celebrità». Resta il fatto che fra due giorni a Minneapolis, alla Convention repubblicana, John McCain non sarà in grado di mettere insieme neanche 10.000 persone: il paragone tra i due sarà impietoso.
Ancora più profonda la seconda traccia lasciata dalla notte di giovedì sotto il terso cielo stellato del Colorado. Per chiunque abbia frequentato questo paese, è impossibile trattenere un groppo alla gola nel vedere una famiglia di afroamericani acclamata come lo furono Jackie e John Kennedy, Hillary e Bill Clinton. Solo venti anni fa una simile immagine sarebbe stata impensabile. Certo non vuol dire che il razzismo abbia smesso di avvelenare gli Stati uniti, proprio come l'essere stato guidato da una donna, Benazir Bhutto, non ha reso il Pakistan meno machista e misogino. È però il segno di un'evoluzione lenta e sotterranea: venti anni fa a Jesse Jackson, che pure era partito bene, fu impedito di arrivare alla nomination. Obama ci è invece riuscito e lo ha sancito con un discorso dai toni kennediani.
Resta ora la parte più difficile. Gli 84.000 di Denver erano «veri credenti». Ma da oggi il pubblico si estende all'America profonda, diffidente, a volte rancorosa, in preda alle paure più disparate.
Da questo punto di vista, se qualcosa è mancato al discorso di Obama, perché fosse pienamente kennediano, è stato lo slogan che sintetizza tutto, la formula che risulta indelebile, il «New Deal» di Franklin Delano Roosevelt, la «Nuova Frontiera» di Kennedy, la «rivoluzione antistatale» di Ronald Reagan, persino il «Compassionevole Conservatorismo» di George Bush jr. e il «contratto con gli italiani» di Silvio Berlusconi. Obama ha delineato un orizzonte politico, ma non lo ha battezzato. E questo può diventare un problema. Avremo tempo di verificare le sue proposte politiche, ma certo nel suo discorso Obama ha cercato di spuntare le due più serie critiche che gli erano state rivolte: da un lato di restare sempre nel vago, di non sporcarsi mai con la concretezza delle singole riforme, e dall'altro di parlare troppo di sé e di troppo poco attaccare Bush e McCain. Giovedì sera l'attacco a McCain è stato misurato ma fermo, educato ma frontale.
Una tale performance lascia prevedere che nei prossimi giorni Obama registrerà un balzo notevole nei sondaggi. Resta da sapere quanto questo slancio sarà duraturo. Le vecchie diffidenze permangono, e - a cercare proprio il pelo nell'uovo - Obama nulla ha detto per lenire e sanare le difficoltà degli americani ora e adesso, in questi mesi e non fra cinque anni: non ha proposto nessuna misura di rilancio immediato dell'economia.
Non saranno poche centinaia di dollari a famiglia di sgravi fiscali a rilanciare un'economia afflitta da un calo generalizzato dei redditi e quindi da un diminuito potere d'acquisto. Ma per discutere tutto ciò ci sarà tempo a iosa nei prossimi due mesi. Oggi per Obama la strada che conduce alla presidenza resta ancora in salita, ma dopo la Convention e la notte di giovedì, la salita è meno ripida.
(da "Il Manifesto" del 30 agosto 2008)
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3 commenti:
Oh, saro' strano ma dopo sette righi mi ero già bell'e rotto i cojones di leggere quel popo' di poema......
mateantilettura
Sette righi sono già una discreta performance di lettura.
Per me ottima, direi.......
matelettoreassiduo
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